IL RACCONTO. Mariuccina, la forza di volontà contro il destino
Gli occhi del padre e quelli dell’ostetrica si incontrarono per pochi, interminabili istanti, sufficienti a fare intuire all’uomo la terribile verità. «Ha un visetto da bambola, solo è un po’ piegata e ha gambette e braccine più corte del resto del corpo» gli sussurrò la donna, spiandone la reazione, pronta a consolarlo con un «ma poi crescendo… chissà».
«Voglio vederla, subito… adesso». Per lui, vedere quel povero esserino inerme tra le braccia della madre fu una coltellata al petto: lo assalì asfissiante il senso di colpa che avesse trasmesso lui quella malformazione.Mese dopo mese, lui e la moglie capirono che non sarebbe cresciuta come tutte le altre bambine, sarebbe rimasta piccola: Dio aveva voluto mandare loro questa dura prova. E come segno di accettazione, invece che Maria, la chiamarono sempre Mariuccina.
Ma l’uomo era un contadino intagliato nella roccia e, da sempre abituato a combattere contro la natura, non era tipo da allargare le braccia ed affidarsi al destino. Questo insegnava alla bambina che, naturalmente fornita di intelligenza vivida e spirito indomabile, fece della volontà lo strumento per vivere.
Purtroppo il problema di Mariuccina non era solo estetico, ma le rendeva difficoltose anche le normali azioni della vita quotidiana. Avrebbe dovuto fare molti interventi e, dicevano i medici, affrontare mesi di ospedale. Il prete del paese consigliò il padre di mandare la bimba in collegio all’istituto Don Gnocchi in Toscana, per studiare senza pesare sulla famiglia.
Fu il padre ad accompagnarla in quella che per Mariuccina sembrò subito una prigione e a consegnarla nelle mani delle suore. Appena il genitore se ne ripartì, Mariuccina incominciò a piangere disperatamente e una suora, con discutibile carità cristiana, le disse che il padre l’aveva abbandonata.
Il collegio era immenso: corridoi lunghi e larghi, grandi finestroni. Le camerate avevano file interminabili di letti bianchi, uno vicino all’altro, e tendaggi svolazzanti al vento che alla bimbetta sembravano grandi vele di antichi galeoni in mezzo alla tempesta.
Fu assegnata ad un camerone con trenta letti; mise a posto la piccola valigia di cuoio, dove la mamma le aveva riposto il cambio della biancheria e un vestitino di ricambio. Conobbe le sue nuove compagne, ognuna con il suo carico di dolore, fisico e morale. Dopo una frugale cena al refettorio e le preghiere, andarono tutte a letto. In preda all’agitazione, Mariuccina non riusciva a prendere sonno, ma alla fine, la stanchezza del viaggio e gli effetti del lungo pianto si fecero sentire: albeggiava, quando la bimba si addormentò, raggomitolata come un tenero gattino.
Il mattino si annunciò con sciabolate di luce che provenivano dai finestroni aperti. Le suore le avevano abituate a rifare perfettamente i letti che dovevano essere rigorosamente tutti uguali. Solo che molte bambine dovevano mettere il busto, gli arti artificiali o raccogliere i bastoni; e chi non era svelta a fare tutto questo veniva punita. Dopo un po’ di tempo, Mariuccina era diventata così brava che, saltellando e zoppicando sulla gamba debole, rifaceva i letti di tutte le compagne in difficoltà, lasciandoli tutti uguali.
Passarono sette lunghi anni e Mariuccina era ormai grandicella quando, a Natale, la fecero salire con un’amichetta sul treno per Livorno, da dove doveva imbarcarsi sul traghetto per Cagliari per quello che era il suo primo ritorno a casa.
Ma prima di andarsene, visto che nessuno s’era ricordato che dovevano anche mangiare, pensarono di compiere un piccolo furto. Si guardarono negli occhi e uno stesso pensiero attraversò la loro mente: rubarono due panini del pranzo e non avendo companatico ci misero dentro alcune bucce di arancia raccolte dal tavolo.
Da quel momento, Mariuccina fece della forza di volontà il suo lasciapassare universale e, magari in tempi lunghi, raggiunse sempre i suoi obiettivi. E una volta in cima, si sentiva alta, altissima, in barba alla natura che l’aveva voluta bassissima.
Trovò un impiego in un’azienda e dopo alcuni anni ne divenne direttrice. Per lei non erano importanti i complimenti e le lodi, che accettava comunque volentieri perché la facevano sentire amata, ma la gioia di aver reso un servizio, di essere stata utile. Si innamorò anche, e molti erano attirati dalla bellezza della sua anima.
Oggi, ripensa con orgoglio al cammino fatto, alla sua partenza svantaggiata e, quando si guarda allo specchio, pensa al magnifico e succoso frutto che può stare dentro al suo aspetto esterno. Sì, ora anche il suo fisico le sembra buono, proprio come la buccia di quell’arancia che le sembrò buonissima quella volta insieme al panino.
Maria Cinus
(ilsarrabus.news)
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