IL RACCONTO. Una vecchia foto di classe, il ricordo di un rito d’altri tempi
Sarà stata la primavera imminente o la nostalgia dei nostri cari che non ci sono più, ma ieri mi è preso lo sghiribizzo di rivedere delle vecchie foto. Erano conservate in un cassetto, aspettando, alcune da decenni, che mi decidessi a sistemarle dentro un funzionale album in rigoroso ordine cronologico… Ma c’è sempre qualcosa che impedisce di dare ordine alla memoria. Forse lei non vuole essere imbrigliata, vuole viaggiare libera insieme al cuore.
Tra un sorriso e un “questo chi è, non mi ricordo?”, all’improvviso mi hanno guardato 26 paia di occhi vispi e spensierati: gli occhi miei e quelli dei 25 compagni di quinta elementare, schierati nella più classica foto di classe. Dietro, solenne, alta ed elegante, campeggiava la brava maestra Alberta, toscana catapultata chissà come e perché in Sardegna. Una foto di quarantacinque anni fa, un frammento in bianco e nero, come era la vita stessa di allora, dove netta era la distinzione tra giusto e sbagliato, tra bene e male, dove c’era rispetto a scuola, in famiglia. E tra di noi.
La allora signorina Alberta ci avvertì il giorno precedente, dicendoci che l’indomani sarebbe venuto il fotografo per immortalarci nella foto di fine anno. «Quindi» si raccomandò «capelli puliti, orecchie lavate e “divisa” in perfetto ordine».
Consapevoli che quel clic sarebbe passato alla Storia, una volta a casa lanciammo l’allarme. Le mamme erano ben pronte all’evento, non bisognava far sfigurare il rampollo nel confronto. E poi, un po’ di sana competizione non ha mai ammazzato nessuno. E così il giorno dopo le eroiche genitrici si alzarono presto per stirare il quasi sempre unico nostro grembiule, il colletto e il fiocco.
Arrivati in classe, ci si guardò l’uno con l’altro, con una punta di invidia per quelli più… eleganti. Notai che la riuscita del “lavoro” era direttamente proporzionale al ceto sociale: i più facoltosi erano provvisti di grembiuli nuovi e colletti stiratissimi. Ma tutti avevamo un po’ esagerato: guardando la foto adesso, qualcuno può essere scambiato per una sontuosa confezione da uovo di Pasqua!
La nostra maestra, quel giorno, aveva aggiunto ai capelli cotonati dell’epoca, un tocco di rossetto sulle labbra e un sapiente filo di trucco. Ricordo che la cosa un po’ mi dispiacque, come se questo contribuisse ad allontanarla dal nostro mondo: era così diversa dalle nostre mamme con i capelli tirati e fermati da un pettine. Ma con gli occhi di oggi, penso però che il pettine delle mamme oltre a fermare i capelli, affermasse anche la loro dignità. Indaffarate com’erano con i problemi del sopravvivere quotidiano, non avevano certo tempo né denaro per certi lussi!
Si scese allora in cortile, ma il fotografo decise, da grande artista quale si sentiva, di farci la foto sulla collina di fronte. Così ci avviammo cinguettando. Lui scelse un punto strategico, piazzò la macchina fotografica sul cavalletto e sistemò gli alunni più bassi davanti e più alti dietro in modo che si vedessero bene tutti.
Qualche ragazzo più alto voleva fare lo spiritoso e cominciò a fare le corna sulla testa del compagno davanti, ma lo sguardo severo della maestra bastò a dissuaderlo. Però qualche gomitata o calcetto sotterraneo ci scappava sempre. Raggiunta la pace sociale, la maestra si piazzò dietro di noi e, come vedo adesso nella foto, assunse un’espressione adeguata al momento. Noi, di contro, trattenevamo il respiro per raggiungere la richiesta immobilità, turbata solo dai nostri fiocchi, farfalle danzanti al perpetuo vento della Sardegna.
Ed eccoci qua pronti, schierati come un picchetto d’onore, come la nazionale di calcio alla finale mondiale. Silenzio… CLIC…! Fatto! Annunciava il fotografo.
Mi ha sempre affascinato quel procedimento magico, che rubava la luce e la imprigionava con le sue immagini nel buio, all’interno di una macchina fotografica.
Il giorno della foto era un giorno di festa e, dopo lo scatto, la maestra faceva fatica a riunire i suoi pulcini; fortunatamente, poi, spesso la lezione si saltava, per la gioia di tutti.
L’attesa poi era lunga e io immaginavo il fotografo, che al buio, con una strana alchimia, ricreava la nostra immagine, stampandola in un foglio di carta sgranata. Dopo qualche tempo, in classe, arrivavano le foto: ci accapigliavamo per conquistare la nostra copia (come se non ce ne fossero per tutti) e la guardavamo con occhio critico. Poi giù risatine e sberleffi!
Una volta a casa, venivano mostrate e guardate per alcuni giorni, sempre più raramente, per poi essere messe in un vecchio cassetto. Fino a che un giorno di primavera, quasi mezzo secolo dopo, non prende lo sghiribizzo… e mi avvolge l’onda dei ricordi.
Maria Cinus
(ilsarrabus.news)
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