Published on Dicembre 27th, 2021 | by Redazione
1RICORDI. La Colostrai del tempo che fu fra guerra, miseria e solidarietà
Oggi Colostrai (Cristolaxedu) è una bellissima località: villette, turisti, alberghi, strade asfaltate e tantissime persone che vi dimorano sia in estate sia in inverno, sfruttando quello che la natura ha dato : il mare e la sua bellissima spiaggia. La Colostrai della mia generazione era molto diversa. Lungo la spiaggia si estendevano dune di sabbia bucherellate dalle tane dei conigli selvatici; i ginepri secolari, i lentischi, i tamerici che ornavano la ”Piscina”, un laghetto naturale dove le tartarughe d’acqua dolce prendevano il sole e si riproducevano; quel piccolo specchio d’acqua era anche il posto d’incontro dei pastori che portavano gli animali a dissetarsi. I campi erano coltivati a grano, c’erano le vigne orgoglio dei contadini, filari di fico d’india con le saporite figumorische, un alimento per gli uomini e anche per gli animali. Poi tanta, ma tanta solitudine. Solo lui, il mare e la sua compagna, la spiaggia sono rimasti gli stessi. Quanto segue è il racconto delle vicissitudini di tanti ragazzi della mia generazione che abitavano nei ”bacili”, case contadine nella zona di Cristolaxedu. C’era la guerra! Le scuole di Muravera erano chiuse in quanto occupate dagli sfollati scappati dalla città di Cagliari a causa dei continui bombardamenti, l’unica scuola aperta era quella di San Priamo o Villaggio San Priamo come recitava una scritta sui muri all’ingresso del borgo. In quel periodo di carestia c’era molta solidarietà fra le famiglie che vivevano da quello che ricavavano dalla coltivazione dei campi, dall’allevamento del bestiame, dalla caccia, dalla pesca e dalle arnie con il miele che sostituiva lo zucchero in quanto introvabile. In mezzo ai ginepri di Torre Salinas e anche lungo la costa verso la peschiera, c’erano i fortini dei militari ed ogni settimana eseguivano le esercitazioni a fuoco. Le famiglie, che abitavano lungo la costa, dovevano abbandonare le case e recarsi sotto i carrubi nella strada che portava verso la foresta di Senni.
Nella strada dove ora c’è un distributore di benzina vicino all’incrocio per Torre Salinas c’era un posto di blocco dei militari accasermati nella casupola di ”Sa Frontera”. La strada era chiusa da un cavallo di frisia controllato dai militari in armi i quali verificavano i documenti e la merce trasportata sui: pedoni, persone in bicicletta, carri a buoi, carretti con l’asino, greggi e qualche rarissima macchina. Nel mese di ottobre, non ricordo l’anno, iniziò l’anno scolastico. Insieme ad un caro compagno che arrivava da una casa vicina e a mia sorella, ogni mattina ci incamminavamo verso San Priamo dove c’era la nostra scuola. Lungo il cammino, dopo un centinaio di metri si aggregava un’altra coppia di bambini, poi un’altra ancora. Si camminava sulle stradicciole piene di pozzanghere, sui sentieri che costeggiavano le vigne, recinzioni di fico d’india, si passava vicino ad un pozzo dove le donne pescavano l’acqua con un secchio e riempivano le brocche. Dopo tanto faticare si arrivava alle case di ”Sa Spregascia”, dove incontravamo i bambini che arrivavano da Torre Salinas. In fila indiana si riprendeva la marcia lungo lo stradone pieno di ghiaia e polvere; i pastori che pascolavano il gregge vicino alla cunetta ci salutavano, i cani ci abbaiavano e ci mettevano paura. Vicino alla discesa della ” Sa Spadula” il cantoniere curvo nella sua carriola piena di pietrisco, alla nostra vista si fermava, ci salutava e con un sorriso ci augurava buon viaggio. Si camminava zitti e infreddoliti, l’abbigliamento era molto scarso, anche la fame faceva capolino subito calmata dal solito compagno che aveva le tasche piene di fave abbrustolite e le distribuiva come se fossero caramelle; lo sguardo era indirizzato sempre in avanti stringendo al petto un solo quaderno e un pezzo di matita. Dopo una salita e una curva ecco il muro di recinzione del borgo con la scritta: Villaggio San Priamo. Eravamo arrivati. La nostra scuola era la seconda palazzina sulla sinistra uscendo verso la cantoniera. Sulla porta dell’aula ci accoglieva la nostra maestra, per noi una seconda mamma che vedendo le nostre condizioni intirizziti, pallidi e con un abbigliamento poco appropriato per la stagione, ci faceva sedere in cerchio intorno ad un braciere. Il calore della brace ci rasserenava, poi ognuno si sedeva nel suo banco, apriva il quaderno e iniziava a fare le aste. Le classi erano miste dalla prima elementare sino alla quinta. La nostra maestra era una signora siciliana, non troppo giovane, capelli brizzolati, sempre sorridente, aveva lasciato i suoi figli in Sicilia dai nonni e il marito era stato richiamato alle armi. Alla fine delle lezioni riprendevamo la strada per far rientro alle nostre case, ma con una variante per noi bambini molto allettante. Lungo il tragitto ci raggiungeva Antonio (il carrettiere di Pischera Manna) con il suo carrettone trainato da un cavallo su con gli anni e mezzo acciaccato, Antonio rientrava alla peschiera dopo aver fatto delle consegne a San Priamo. Non c’era bisogno di chiedere un passaggio: il cavallo si fermava da solo e noi saltavamo su sedendoci in mezzo ai sacchi di paglia, le ceste odoranti di pesce e i mucchi di legna. Appena seduti, tutti zitti ascoltavamo il rumore delle ruote del carrettone sulla ghiaia, lo scalpiccio degli zoccoli del cavallo quando… Antonio si alzava in piedi e con un sorrisetto sotto i baffi ci chiedeva: ”Scommetto che avete fame”. ”Sissi”, rispondevamo in coro. Prendeva un sacchetto bianco appeso ad un gancio, lo apriva e toglieva un ”cifrasciu” con il rasoio tagliava delle fette di quel pane profumato mettendole nelle nostre mani, mani che rassomigliavano alle bocche spalancate degli uccellini nel nido quando arriva la mamma passera per nutrirli. A ”Sa Spregascia” lasciavamo il carrettone, salutavamo il nostro amico Antonio, sperando di trovarlo anche il giorno dopo, e via nuovamente a piedi verso i campi, verso casa dove c’erano i nostri genitori in ansia che ci aspettavano.
Una notte, mentre ci si riscaldava vicino al caminetto e si facevano i compiti rischiarati da una lampada a petrolio, sentimmo un rumore strano. Io e mia sorella eravamo impauriti e nostra mamma pure, babbo non c’era. Sembrava che centinaia di carri transitassero nelle vicinanze. Uscimmo fuori. Il cielo era stellato e limpido, notammo delle ”strisce nere” che lo solcavano dirigendosi verso Capo Ferrato. Il rumore aumentava. Venne una nostra vicina con i suoi figli tutta spaventata. ”Sono aerei americani e vengono a bombardarci ”. Disse mia mamma. ”Dobbiamo scappare, cercare un rifugio ” rispose la vicina. Il rifugio fu subito localizzato. Mio padre stava costruendo nella sua vigna vicino allo stagno una casetta, aveva scavato una grossa cavità nel terreno dalla quale estraeva un fango speciale che mischiato con la paglia serviva per preparare i mattoni crudi. Secondo il ragionamento delle due mamme molto spaventate era quel fosso la nostra salvezza. Si partì al buio con noi bambini scalzi e piangenti, aggrappati alle gonne delle rispettive madri in direzione dello stagno che distava alcune centinaia di metri. Ad un tratto successe qualcosa che nessuno aveva messo in conto. Vedemmo nel cielo buio una scia colorata, si sentì uno scoppio e apparve un ”sole” che illuminò i campi e la strada come se fosse giorno, poi un altro ”sole” scoppiò verso il mare e un altro sui monti: Erano i bengala lanciati dagli aerei. ”Quello è il segno del Signore” disse una mamma. ”Quale Signore, corri che ci buttano le bombe in testa” disse l’altra. Le bombe non arrivarono, le ”strisce nere” scomparvero inghiottite da alcune nuvole sopra Capo Ferrato, i ”soli” si spensero e tornò il buio; raggiungemmo il ”rifugio”, il fosso di mattoni crudi, e lì passammo la notte in mezzo al fango. Il sole (vero) iniziò a spuntare dalla vicina spiaggia e colorò di rosa gli alberi, lo stagno e i tamerici che lo circondarono, solo allora uscimmo dalla nostra tana per rientrare alle rispettive abitazioni. Dopo i primi passi sull’erba umida dalla rugiada notturna notammo vicino ai nostri piedi una sorpresa: nei campi, sopra le siepi di fico d’india, lungo le stradicciole, sopra gli alberi vi erano stesi tanti rettangolini di carta: erano i volantini lanciati dagli aerei per la popolazione civile e c’era scritto: ”Arrendetevi…” La guerra finalmente finì, gli sfollati di Cagliari rientrarono nella loro città e la scuola di Muravera riprese le lezioni. La maggioranza dei bambini che abitavano nella zona di Colostrai si trasferirono a Muravera dai rispettivi nonni per continuare la frequenza scolastica. Dopo tantissimi anni mentre transitavo a San Priamo in macchina con la mia famiglia mi fermai e feci vedere ai miei figli la ”mia scuola” e raccontai l’odissea per raggiungerla. Il più piccolo di loro mi chiese: ”Papà, perché andavi a piedi a scuola? Nonno non ti poteva accompagnare con il carro a buoi come fai tu con me che mi accompagni in macchina all’asilo?”. Guardai mio figlio negli occhi, ma non riuscì a trovare le parole giuste. Mio figlio aspetta ancora una risposta. ANTONIO AGUS (ilsarrabus.news)
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