L’INTERVENTO. Flat tax? Meglio una riduzione delle aliquote esistenti
Il professor Mario Draghi, in una delle conclusioni finali da Governatore della Banca d’Italia, affermò senza timore di smentita che, “un euro in più disponibile per un reddito familiare è utilizzato interamente per beni e servizi necessari alla famiglia. Un euro in più disponibile in una grande impresa, per il suo 10% verrebbe investito sul mercato, mentre il restante 90% troverebbe un utilizzo in ambito finanziario”.
Ossia, qualsiasi sgravio fiscale per le famiglie si ripercuote sempre e nella sua interezza, sul mercato dei beni e dei servizi, incrementando in identica misura la loro domanda. Espresso in modo ancora più semplice, nel determinare una crescita della domanda vi sarebbe una conseguente dinamica di implementazione, non identicamente lineare, della domanda sul mercato del lavoro. Un eguale sgravio fiscale per le imprese, invece, non determinerebbe analoghe ricadute sul piano economico e sociale, visto che quell’euro per il 90% verrebbe investito sul mercato finanziario, non direttamente legato a quello del lavoro.
L’esplicita nota del Governatore, rilevata dai tecnici, ma sfuggita ai sindacati e alla politica progressista, non è mai divenuta in ambito fiscale un parametro di azione per la politica economica del nostro Paese. La flat tax proposta e prevista dall’attuale Governo Conte, parrebbe rispondere in parte a questa indicazione, ma solo nella misura in cui questa dovesse riguardare solo i redditi delle persone fisiche, evidentemente espletandosi in una misura differente per le diverse fasce di reddito.
Un’ aliquota fissa per tutte le fasce di reddito, non incorrerebbe certo nell’incostituzionalità, poiché la sua progressività, in termini semplici, sarebbe determinata dal volume di reddito a cui è applicata, da cui deriverebbe un prelievo fiscale comunque progressivo in termini assoluti, ma avrebbe scarsi effetti sul mercato.
La flat tax, nel ridurre il prelievo fiscale, in identica misura renderebbe disponibili allo stesso contribuente una quota del suo reddito.
Conseguentemente, per le persone fisiche a basso reddito quell’importo residuale, reso disponibile, assumerebbe comunque un’entità minima, in taluni casi esigua, rispetto a quanto già in essere, il cui reimpiego sul mercato dei beni e dei servizi risulterebbe comunque irrisorio. Diversamente potrebbe accadere per gli alti redditi.
L’importante è però comprendere chi e come, riutilizzerà sul mercato quel “risparmio” determinato dalla nuova aliquota unica. Perché il loro ipotizzato agire costituisce gli evidenti presupposti per una scelta razionale a favore o contraria all’adozione della flat-tax. I percettori di alto reddito, hanno di per se già soddisfatto bisogni primari e secondari, diversamente da quelli a basso reddito che, difficilmente riescono a soddisfare i primi e men che meno, i secondi.
Conseguentemente, quella quota parte del reddito non versata nelle casse dello Stato, grazie all’aliquota “piatta”, troverà un differente impiego in funzione della soddisfazione dei beni e servizi primari e secondari, per i differenti percettori di reddito.
Il paradosso è che, i percettori di alti redditi, paghi di aver già soddisfatto i bisogni citati, potranno decidere di impegnare quelle quote in ambito finanziario, con effetti nulli sulla domanda dei beni e dei servizi, del conseguente prelievo fiscale indiretto e, purtroppo, sul mercato del lavoro. Ovvero la progressività esistente, più che smantellata a favore di un’aliquota unica, andrebbe ridefinita optando per una riduzione sostanziale delle aliquote, già in essere per le basse e medie fasce di reddito e, solo in misura ridotta, per quelle ad alto reddito.
In questo caso la crescita complessiva non risulterebbe nulla sul piano economico e quasi certamente su quello sociale, vista l’incisività che deriverebbe sui differenti attori di mercato.
Maurizio Ciotola
(ilsarrabus.news) in collaborazione con Il Punto Sociale
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