LA LEGGENDA. La storia di Ciuexiu, l’albero più antico del Sarrabus
“Ebbene, che c’è di strano? Non avete mai visto un albero che parla? Io sono un albero… e parlo!
Il mio trisavolo si chiamava Quercus Robur indice di forza, tenacia e coraggio; visse fino a mille anni e, pur scavato e rinsecchito, rimase sempre orgogliosamente in piedi. E tutti quelli che vennero dopo di lui, presero il suo nome. Io che sono nato nel Sarrabus sono stato chiamato Ciuexiu! Ma sempre un Quercus Robur sono!
Gli inglesi che venivano in vacanza mi chiamavano Oak; mi si fermavano davanti in gruppo e dicevano: “Oak-ok, oak-ok!”; io non li capivo, ma per me faceva lo stesso!
Sono sempre stato generoso e aperto, calmo e forte, non c’è mai stato nessuno che non fosse mio amico. Si narra che la casa dei miei nonni, fosse stata scelta come luogo prediletto da Zeus e da Era che lì celebrarono il loro matrimonio; per questo divenne un luogo sacro e prediletto dalle Ninfe.
E io sapevo fin dalla nascita di avere una responsabilità sacra: prendermi cura di tutte le creature che vivono sulla terra e nel cielo. E mio nonno mi diceva: “E pensa sempre ai bambini che sono il futuro dell’umanità!”. E mentre il vento faceva fremere le mie foglie, mi piaceva ascoltare il frullare delle ali degli insetti e il fruscio degli uccelli che volavano in cerchio formando una chiassosa compagnia o, quando saltellando tra i miei rami, mi facevano un piacevole solletico. Mi piaceva quando una coppia di innamorati incideva i suoi nomi nel mio corpo, e ascoltare il respiro della terra che dava vita a tutte le cose. Vivevo bene nella mia casa luminosa, tra lecceti e corbezzoli, nel bel mezzo della foresta dove non c’erano recinti e ogni creatura viveva libera.
Ogni mattina quando mi svegliavo, mi stiravo i rami e rimanevo eretto ed estasiato a contemplare lo spuntare del sole rosso del mattino. Poi davo da mangiare le ghiande agli scoiattoli, ai picchi, ai cinghiali e alle ghiandaie: per me era una gioia sentirmi utile al resto del mondo!
Agli uomini insegnavo ad apprezzare il riposo, a non arrendersi mai, a non perdersi mai d’animo davanti alle avversità, ad essere stabili e forti. Io, dal canto mio, non mi concedevo un attimo di tregua, tenace e orgoglioso non mi lamentavo mai. Con le mie braccia, riscaldavo l’animo di tutti e scacciavo il gelo dell’inverno. Insegnavo il rispetto per i miei simili, insegnavo a sognare a quelli che avevano un disperato bisogno d’amore. Invocavo le nuvole e la pioggia per placare la sete dei pastori e delle loro greggi e ricambiavo dando germogli in abbondanza. I bambini si addormentavano sotto la mia ombra mentre le fronde cantavano dolci melodie, oppure li facevo giocare con l’altalena fatta coi rami più robusti.
Non davo alle persone tutto ciò che chiedevano, ma soltando quello di cui avevano bisogno. Accompagnavo la vita di tutte le persone dalla nascita alla morte e lungo la loro vita, le riempivo di doni meravigliosi. La gente del paese sosteneva che io fossi il più vecchio del Sarrabus… Mah, oramai gli anni non li conto più! Però ho ancora un bel portamento e nonostante la mia bella età e la pelle un po’ rugosa (un difetto di famiglia, ereditato dai miei avi), ancora me la cavo benino.
Ho visto crescere generazioni di bambini, ho accolto viandanti e camminatori, raccoglitori di asparagi e di funghi. Volevo solo che tutte le persone fossero felici… Ma forse chiedevo troppo!
Eh sì, gli uomini non sono tutti buoni, gli uomini non sono tutti uguali! E infatti qualcuno un giorno si era inventato un gioco nuovo e terribile: una sera vidi dall’alto del monte, un uomo che di nascosto, si avvicinò alla mia terra. Il vento quel giorno era caldo e soffiava forte. Non pioveva da giorni e sentivo la terra screpolarsi. Non riuscivo a dormire e avevo ospitato qualche animale di passaggio. Avevo come la sensazione che qualcuno respirasse piano nell’ombra!
Poi vidi quell’uomo lanciare un oggetto infuocato: era un portatore di morte, un saccheggiatore dei boschi e della terra, un folle che stava commettendo un crimine spregevole! Poi si diede vigliaccamente alla fuga! Al margine del bosco vidi un pennacchio di fumo salire come una colonna sempre più alta e minacciosa, poi un inferno di lingue, di fiamme rosse. L’odore di bruciato e di fumo denso spinto dal maestrale era insopportabile: cadevano fuliggini e ceneri infuocate e io mi sentivo in trappola. Un’immensa coltre grigia sembrava minacciare tutto, mentre le fiamme si levarono altissime, artigliando tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Una lotta impari arbitrata dal vento! Mi sembrava di essere all’inferno, mentre assistevo alla mia stessa morte. Braccato dal fuoco, cercai di resistere…
Le fiamme oramai stavano divorando tutto; un lupo ululava disperato e le lepri correvano terrorizzate qua e là, spaventate da quel mostro incandescente.
Perché, perché, mi chiedevo? Io non ho mai fatto del male a nessuno, ho solo amato visceralmente la mia terra. E, bloccato sul terreno com’ero, non potevo avvertire nessuno del pericolo! Non respiravo più! Pregai allora Madre Terra! E così avvenne il miracolo: il vento cambiò direzione e si diresse verso l’uomo che aveva appiccato il fuoco; le fiamme spinte dal vento, come fossero un Castigo Divino, lo ghermirono e lo avvolsero in un abbraccio mortale. L’uomo, ridotto allo stremo, riuscì però a prendere dei rami freschi, con cui, dopo una strenua lotta, spense il fuoco intorno a lui. Molte furono le ustioni su tutto il corpo, si salvò a fatica, ma capì cosa significava morire bruciati! Capì che l’uomo ha la terra in prestito e non ha il diritto di stravolgerla!”.
Ciuexiu si rivolse al cielo e invocò grandi nuvole traboccanti d’acqua: il cielo lo ascoltò spegnendo così gli ultimi focolai e placando la sete di tutto il bosco! Nella radura ora c’è soltanto un deserto di cenere e qualche ceppo. Ma Ciuexiu è ancora là a spargere tutti i suoi semi e a far fruttificare i suoi rami. E in Italia, lo chiamano Quercia…
Maria Cinus (ilsarrabus.news)